Quando ho deciso di intraprendere questo viaggio, molte persone erano sorprese della meta che avevo scelto. Questo, credo, soprattutto perché, sulla base delle osservazioni ricevute dopo che avevo comunicato la mia destinazione, il Sud-Est asiatico è una parte del mondo ancora poco esplorata, un po’ misteriosa, un po’ selvaggia e lontana dagli usi e costumi del mondo occidentale. Avevo letto molti racconti sull’antica Indocina e sul suo profondo legame con la spiritualità, spesso consumata dalle vicende di una delle guerre più sanguinose e inutili del nostro secolo.
Ho portato con me uno zaino, che mi avrebbe accompagnata in un viaggio di circa un mese dal nord al sud del paese; dentro il cuore tanta leggerezza e semplicità.
La prima meta è stata Hanoi, la capitale del Vietnam, una città ricca di influenze francesi e cinesi, caratterizzata da una stratificazione storica tangibile ovunque: dal vecchio quartiere in cui si distinguono chiaramente edifici coloniali dell’epoca francese, all’essenza vietnamita delle strade strette e caotiche. Il caos e il traffico sono spesso sinonimo di “Sud-Est asiatico”, ma nonostante la percezione di rispetto delle regole stradali che il mondo occidentale può avere, l’enorme sciame di mezzi di trasporto, in particolare di motorini, scorre fluido in Vietnam, ogni mezzo uno accanto all’altro, distanti fra loro di pochissimi centimetri, ma sincronizzati secondo un flusso apparentemente incomprensibile, alcuni anche trasportando gli oggetti più improbabili, accatastati l’uno sull’altro. Questa armonia mi parve inizialmente del tutto inspiegabile. Ho capito presto che non bisognava trovare una spiegazione a questa logica che viveva di propria natura e che per attraversare la strada, oltre ad un’inziale buona dose di coraggio, bisognava fidarsi dell’altro conducente, in qualche modo; io non avrei costituito nessun pericolo per loro e loro nessun pericolo per me.
Il primo impatto con la capitale Hanoi è stato molto emozionante, poiché rappresenta una perfetta combinazione fra tradizione e modernità. È una città ricchissima di vita e sede di oltre 600 pagode costruite attorno alla città, luogo in cui si possono incontrare vietnamiti vestiti da uomini d’affari e altri che indossano il non là, il cappello in paglia simbolo del Vietnam, accessorio di origine contadina, usato per proteggersi dal sole e dalla pioggia durante la lavorazione dei campi di riso. C’è chi pesca sulle sponde del Fiume Rosso, su cui la città nasce, chi spinge il carretto pieno di frutta e verdura sul marciapiede affollatissimo di persone, chi viaggia da solo con in spalla il proprio zaino e le folle di turisti che vengono accompagnati da una guida del luogo che parla un inglese maccheronico, ma molto chiaro.
Non ho potuto non visitare il celebre Tempio della Letteratura ad Hanoi, perfetto esempio dell’architettura tradizionale vietnamita, eretto nel 1.070 per rendere omaggio al sapere e all’educazione, e sede della prima università vietnamita. Si tratta di un tempio confuciano, culla della conoscenza di molti uomini che hanno segnato le sorti del paese, simbolo di illuminazione della sapienza e metaforicamente simbolo di accesso alla virtù e alla saggezza.
Nonostante l’idea fosse quella di vivere a pieno la popolazione ed immergersi nella cultura, evitando i luoghi più turistici, immancabile è stata la visita alla famosa Train Street, conosciuta al mondo per essere una strada adorna di fiori e di caffè, gestiti dai proprietari delle case adiacenti, luogo di transito del famoso treno che passa senza rallentare rasente alle case. Una linea gialla distanzia pochi metri la parete da un edificio all’altro, che non bisogna assolutamente oltrepassare per salvare la pelle. Uno spettacolo a dir poco surreale e nei principi della sicurezza del tutto vietnamiti, ma che cattura l’attenzione di molti curiosi per la sua singolarità.
La giornata in Vietnam inizia dalle prime luci dell’alba, infatti è abituale per le persone alzarsi di prima mattina e dedicarsi alle attività più diverse: dai venditori ambulanti, ai commercianti nei banchetti dello street food, c’è chi si diletta nella riparazione di strumenti rudimentali, meccanici a porte aperte, barbieri sul ciglio della strada, chi crea collane di fiori, chi intesse vestiti, chi cuce, chi pulisce, chi rimane semplicemente seduto a osservare il mondo per l’intera giornata. In Vietnam si può trovare di tutto e il contrario di tutto, ed è questa la magia di questo paese.
Il mio cuore si scaldò subito grazie all’accoglienza ricevuta, persone semplici e sorridenti, felici di quello che stavano facendo, felici di vedere una straniera nella loro terra, accoglienti e molto servizievoli. Una sorta di sintonia, che nella sua complicatezza, si consumava nella sua semplicità. Inspiegabile, una normalità anormale, così la definisco poiché vista dagli occhi di una persona di cultura occidentale, in cui gentilezza e cortesia non vengono praticate così facilmente verso degli sconosciuti.
Dolce o salato, la cucina vietnamita può soddisfare tutti i gusti al costo di pochissimi dong. Percorrendo dal nord al sud il paese, i piatti sono un simbolo identificativo delle varie zone e costituiscono una delle ricchezze della cucina nazionale, adorata in tutto il mondo. Il nord è infatti la culla del piatto vietnamita forse più conosciuto, il pho, cioè una zuppa a base di noodles, erbe e carne, il tutto affogato su una ciotola piena di brodo casalingo. Tipico della zona centrale del paese è il bahn xeo, ossia un piatto composto da pancakes fritti e salati, ripieni di carne di maiale, gamberi, cipolla verde tagliata a dadini e germogli di fagioli, immancabili come guarnizione in ogni piatto. Più diffuso nel sud del paese, ma onnipresente da nord a sud è il bahn mi, o baguette sandwich, originariamente introdotto dai colonizzatori francesi, condito con formaggio, salumi, verdura fresca e paté: una combinazione di gusto, semplicità e praticità! Le bevande offerte ai lati della strada sono principalmente smoothies di ogni gusto, per soddisfare ogni tipo di palato, oltre che le bevande molto dissetanti ricavate dalla canna da zucchero e il celeberrimo egg coffee, da gustare seduti sui piccoli sgabelli dei caffè del centro città.
In Vietnam poche persone conoscono la lingua inglese, è normalità per i vietnamiti rivolgersi agli stranieri in lingua madre, l’inglese è infatti una lingua ancora praticata da pochissimi e sfruttata soprattutto per il turismo. La naturalezza di avvicinarsi agli stranieri e parlare nella propria lingua madre, che per una persona di origine europea risuona davvero lontana e incomprensibile, è una pratica per i vietnamiti normalissima. La cosa fantastica è che, nonostante tutto, ci si capisce benissimo chissà per quale strana regola dell’universo, e il sorriso e la semplicità di tante cose si raccolgono in scambi che permettono di capire molto più di quello che effettivamente a parole viene detto. Un mondo così lontano dal nostro, spesso troppo proiettato nella materialità delle cose e nel risultato di come può suscitare un’impressione, rispondere a uno stereotipo e di rendere tutto un’apparenza.
Durante il mio viaggio, ho incontrato e conosciuto tanti solo travelers, di ogni età e provenienti da ogni nazione del mondo, che con lo zaino in spalla attraversavano tutta la nazione, in cerca di qualcosa. Inconsciamente sono partita io stessa alla ricerca di qualcosa, una “cosa” che non ha definizione o è esprimibile attraverso un concetto, ma che mira a riscoprire la profondità spesso recondita in ogni essere umano, una spiritualità che spesso viene soggiogata dai principi errati e legati all’apparenza di una società, che prendono il sopravvento. In Vietnam le persone hanno poco dal punto di vista materiale ed è forse questa la forza che le persone hanno per coltivare il proprio essere, i rapporti con le persone e la propria spiritualità.
Ho maturato questa convinzione spostandomi nel nord del paese, percorrendo il famoso anello della regione di Ha Giang che mi ha portato fino al confine cinese, in sella ad una moto e accompagnata da vietnamiti del posto, con cui, nonostante l’ostacolo linguistico, ho creato un legame di amicizia e spensieratezza, che mi ha regalato tra i momenti migliori della mia vita. Il nord del paese è un mondo completamente incontaminato dall’industrializzazione e dal capitalismo, la bellezza e la pienezza dominante della natura sono disarmanti. Ogni angolo era diverso, ricco di rocce, di vegetazione e di vette altissime che creavano lingue d’acqua, cascate e valli infinite: davanti a tale maestosità, è spontaneo percepire quanto l’essere umano possa sentirsi piccolo, paragonato alla forza degli elementi naturali.
Il nord del Vietnam, fuori dai sentieri battuti, è il luogo in cui ancora oggi coesistono almeno 53 gruppi etnici, tra cui gli H’mong, i Tay, i Fula, gli Dzao, i Cao Lan, i Lolo e i Thai bianchi, un mosaico di tribù che trova rifugio tra le altissime montagne. Percorrere le montagne e ammirare la potenza della natura è come incontrare il mondo alle sue origini, incontaminato da qualsiasi condizionamento artificiale. Le montagne sono piene di bambini, in gruppo o soli, anche molto piccoli, che percorrono il dorso della montagna, che si occupano di aiutare i più vecchi a raccogliere erbe utili alle cure mediche e principale fonte di sostentamento e alimentazione, che si dedicano alla cura della terra e lavorano quasi fossero dei piccoli adulti, anche facendo i lavori più faticosi.
Le intense sfumature di colore del vestiario tipico delle donne e delle bambine, incastonate in uno spettacolo di magia ambientale senza paragoni, la cordialità e il sorriso nell’accoglienza di queste persone riportano ad un’epoca fuori dal tempo. La vita è qui concepita in modo semplice e senza condizionamenti esterni, completamente libera da ogni complicanza e stereotipo e regala sensazioni di arricchimento personale difficilmente comparabili ad altre realtà. Le larghe famiglie sono composte da genitori giovanissimi, una configurazione che oggi, nella realtà occidentale, è lontana e forse appartenente al passato.
Spostandomi un po’ più verso il centro del paese, ho incontrato la natura che regna ancora sovrana nel parco naturale di Phong Nha-Ke Bang, riconosciuto come patrimonio naturale dell’umanità dall’UNESCO, sito caratterizzato da grotte, caverne e fiumi sotterranei e una grande ricchezza nella biodiversità animale e vegetale. Il sito è infatti una fra le più grandi regioni di calcare al mondo.
La ricerca della ricchezza del mondo naturale mi ha spinta fino all’isola di Cat Ba, nonostante fosse stata parzialmente distrutta dal tifone Yagi, che aveva colpito la zona qualche settimana prima. Molte persone che ho incontrato nel mio viaggio avevano evitato radicalmente la meta, poiché spaventati dalla forza distruttiva della natura e della mancanza della praticità dei mezzi e delle risorse disponibili, andate distrutte. Nonostante abbia potuto constatare con i miei occhi l’intensità devastante del tifone, ancora oggi farei la stessa scelta, cioè di vedere con i miei occhi la forte capacità di resilienza di questo popolo, pronto a rialzarsi dopo aver visto la distruzione, in procinto di unirsi e lavorare per ricostruire quello che la natura, che tanto dà loro, aveva distrutto. L’isola di Cat Ba è il corridoio per raggiungere la celebre baia di Ha Long, una delle meraviglie del mondo naturale, un paradiso di circa 2.000 atolli calcarei ricoperti da foresta pluviale e abitate da animali molto rari, tra cui le scimmie in via di estinzione che popolano Monkey Island. La magia di questa baia è intrisa di leggenda, poiché le popolazioni locali sostengono che, migliaia di anni fa, quando i vietnamiti si sono trovati a dover combattere contro gli invasori cinesi, gli dèi sono venuti in loro aiuto e hanno inviato dei draghi, figure mitologiche molto care alle popolazioni locali, che avrebbero sputato gioielli, poi trasformatisi in isolotti, che avrebbero protetto la loro terra dagli invasori. Si può respirare ancora oggi l’incanto di questa suggestione, inebriata dall’incontro fra la natura primeggiante e il fascino del mito.
Non potevo non sostare per qualche giorno nella bellissima città di Hoi An, nel centro del Vietnam, conosciuta come la città delle lanterne. Si tratta di una città divenuta patrimonio UNESCO, una città cartolina che, quando scende la sera, è costellata da lanterne illuminate, che illuminano il buio della notte e che riflettono la loro luce sulle acque del fiume Thu Bon (detto anche il Fiume della Nostalgia). Esse rappresentano la storia e la tradizione di questa città, nucleo di scambi commerciali fra popoli che hanno lasciato un segno nel loro passaggio, come giapponesi (da ricordare infatti è il celebre ponte giapponese della città di Hoi An, raffigurato dietro alle banconote di ventimila dong), vietnamiti, olandesi, francesi, cinesi e persino indiani. Le lanterne hanno un significato molto profondo nelle culture asiatiche, sono infatti simbolo di speranza, rinascita, fortuna e prosperità. Lasciare al fiume una lanterna di carta accesa ad Hoi An è una metafora della volontà di esprimere un desiderio e di lasciarsi alle spalle dolori appartenenti al passato, una sorta di rinascita dello spirito, cullata dalla magia che avvolge l’atmosfera.
Ho conosciuto un popolo fortissimo, che ha dimostrato nel corso dei secoli la sua intelligenza e la sua resilienza. Questo popolo è un grande esempio della grande capacità di far fronte a delle difficoltà e di utilizzare gli strumenti in suo possesso senza retrocedere di un passo. Popolo soggiogato per tutta la sua storia dagli invasori, protagonista di uno dei conflitti più importanti, sia a livello simbolico che a livello politico, della storia del Novecento; ha saputo usare ingegnosamente gli strumenti rudimentali in suo possesso per non mollare, fino ad arrivare a vincere la guerra e ad ottenere la propria indipendenza.
L’indipendenza per il popolo vietnamita è un simbolo di forte unità, coronata dalla perseveranza di Ho Chi Minh, politico e rivoluzionario, che guidò il paese dapprima come Primo ministro e fondatore del partito Viet Minh (“Lega per l’indipendenza del Vietnam”) e poi durante la guerra del Vietnam del Nord contro il Vietnam del Sud.
La vecchia Saigon è stata battezzata Ho Chi Minh in suo onore. La fortuna mi ha permesso di ricontrare proprio ad Ho Chi Minh una vecchia amica vietnamita che aveva vissuto un periodo in Australia con mia sorella. Poter condividere con lei anche solo una passeggiata di sera, mi ha permesso di confrontarmi sul tema del forte spirito di unità che anche la nuova generazione coltiva. Ho sentito spesso sottolineare da più nativi vietnamiti la grande forza di non provare alcun rimorso nei confronti del passato, nonostante le grandi perdite, nonostante la grande sofferenza causata dalla guerra. L’unità di questo popolo si fonda sullo sguardo verso il futuro, senza nostalgia e rancore verso ciò che è stato. Un insegnamento che al giorno d’oggi potrebbe perdersi nella trivialità delle parole, ma che non è da considerare come retorico.
Durante il mio soggiorno ad Ho Chi Minh, ho voluto approfondire la mia conoscenza sulla guerra del Vietnam, visitando il museo dei resti della guerra, fondato nel 1975. A primo impatto, il museo mira principalmente a denunciare le atrocità della guerra con una prospettiva deliberatamente propagandistica e vietnamita. Nel corso del tempo, con il miglioramento delle relazioni internazionali, la visione ha cercato un equilibrio meno orientato, ma rimane determinante l’impatto debilitante sull’aspetto poco umano della guerra, sulle conseguenze causate dall’uso delle armi chimiche sul campo, in particolare dell’Agent Orange, in contrasto alla forte resistenza vietnamita con armi rudimentali.
Il museo è ricco di testimonianze di sopravvissuti alla guerra, ricchissimo di immagini storiche crudeli, che mostrano senza veli la crudeltà umana e una ricca sezione dedicata ai reportage di guerra, in termini di stragi compiute e di persone che hanno invece sacrificato la loro vita per salvarne altrettante. L’affresco che ne deriva da questa visita, pur essendo in ottica vietnamita, suggella una pagina di storia che ancora oggi pesa nelle coscienze del mondo occidentale.
Un po’ nascosto e forse anche poco conosciuto è il monumento dedicato al monaco buddista Thich Quang Duc, situato nell’incrocio di una strada molto trafficata, nello stesso luogo in cui l’uomo, all’età di 67 anni, l’11 giugno 1963, si immolò come simbolo di protesta alla politica di oppressione nei confronti della religione buddhista, messa in pratica dall’amministrazione politica di fede cattolica del presidente del Vietnam del sud, sostenuto dagli Stati Uniti, Ngo Dinh Diem. Il monumento è dotato di un’energia propria ed eccezionale, l’aurea che si avvolge attorno a questa statua trasmette al medesimo tempo sofferenza, liberazione, pace interiore e risoluzione, a poca distanza dal disordinato traffico dal rumore incessante. Il monaco si fece cospargere di benzina e si fece dare fuoco, rimanendo completamente immobile per dieci minuti, fino alla sua morte, nella posizione del loto, mantenendo un controllo totale sul proprio corpo e sulla propria mente. Si è molto discusso di questo estremo gesto compiuto dal monaco, ancora oggi ci si chiede come la protesta per la libertà potesse manifestarsi in un tale comportamento, nell’ottica buddista. Rimane comunque in Vietnam l’importante impronta di questo uomo, eretto ad eroe nazionale e conosciuto nel mondo per il famoso scatto di Malcom Browne, foto che ha vinto il World Press Photo of the Year.
A pochi passi da questo monumento, si trova la Pagoda di Xa Loi, conosciuta poiché si dice custodisca una reliquia del Buddha ed è luogo di incontro di molti fedeli che si raccolgono al tramonto in preghiera e meditazione. Sono stata molto fortunata a potervi accedere, nonostante il mio abbigliamento non adeguato, poiché sono stata avvicinata da dei ragazzi e bambini, che parlavano un perfetto inglese, incuriositi dalla mia origine e dalla mia presenza e dall’interesse che manifestavo nei confronti del luogo. Nonostante il mio abbigliamento non fosse adeguato, il monaco buddhista che portava la tipica veste di color arancione mi ha permesso l’ingresso e mi è stata subito offerto un bahn mi, rigorosamente vegetariano, un bicchiere della bevanda a base di zucchero di canna e una tunica da indossare per poter praticare la meditazione. La meditazione va rigorosamente praticata a piedi scalzi, spesso nella posizione del fiore del loto. Il togliersi le scarpe è un gesto di rispetto che non viene praticato soltanto nel contesto religioso, ma anche nelle abitazioni delle persone comuni, poiché simboleggia il rispetto nei confronti di chi ha aperto le proprie porte di casa agli ospiti, ma anche un simbolo di gran rispetto per sé stessi. Le scarpe, infatti, raccolgono tutto lo sporco che ognuno di noi incontra nella propria vita, l’usura delle suole è il simbolo della sofferenza e delle fatiche affrontate, che va lasciato fuori dalla dimora.
Il mio viaggio in Vietnam ha portato a galla dentro di me tante emozioni che poche pagine non riescono e non arriverebbero mai a descrivere.
Il Vietnam ha risvegliato in me la percezione delle cose semplici, quelle che rendono la vita veramente ricca e vissuta a pieno del nostro stupore, perché soprattutto le cose semplici, come il sorriso di un bambino, la gentilezza di uno sconosciuto e la vita vissuta nella sua autenticità senza costellazioni artificiali dovrebbero essere il vero sapore di ogni giornata.
Il viaggio rimane sempre il modo migliore per praticare l’arricchimento dell’anima, dopo aver vissuto questa terra lo penso sempre di più.
Vietnam: oltre la storia e l’apparenza per cogliere la vera essenza della vita di Alice Bettin
Quando ho deciso di intraprendere questo viaggio, molte persone erano sorprese della meta che avevo scelto. Questo, credo, soprattutto perché, sulla base delle osservazioni ricevute dopo che avevo comunicato la mia destinazione, il Sud-Est asiatico è una parte del mondo ancora poco esplorata, un po’ misteriosa, un po’ selvaggia e lontana dagli usi e costumi del mondo occidentale. Avevo letto molti racconti sull’antica Indocina e sul suo profondo legame con la spiritualità, spesso consumata dalle vicende di una delle guerre più sanguinose e inutili del nostro secolo.
Ho portato con me uno zaino, che mi avrebbe accompagnata in un viaggio di circa un mese dal nord al sud del paese; dentro il cuore tanta leggerezza e semplicità.
La prima meta è stata Hanoi, la capitale del Vietnam, una città ricca di influenze francesi e cinesi, caratterizzata da una stratificazione storica tangibile ovunque: dal vecchio quartiere in cui si distinguono chiaramente edifici coloniali dell’epoca francese, all’essenza vietnamita delle strade strette e caotiche. Il caos e il traffico sono spesso sinonimo di “Sud-Est asiatico”, ma nonostante la percezione di rispetto delle regole stradali che il mondo occidentale può avere, l’enorme sciame di mezzi di trasporto, in particolare di motorini, scorre fluido in Vietnam, ogni mezzo uno accanto all’altro, distanti fra loro di pochissimi centimetri, ma sincronizzati secondo un flusso apparentemente incomprensibile, alcuni anche trasportando gli oggetti più improbabili, accatastati l’uno sull’altro. Questa armonia mi parve inizialmente del tutto inspiegabile. Ho capito presto che non bisognava trovare una spiegazione a questa logica che viveva di propria natura e che per attraversare la strada, oltre ad un’inziale buona dose di coraggio, bisognava fidarsi dell’altro conducente, in qualche modo; io non avrei costituito nessun pericolo per loro e loro nessun pericolo per me.
Il primo impatto con la capitale Hanoi è stato molto emozionante, poiché rappresenta una perfetta combinazione fra tradizione e modernità. È una città ricchissima di vita e sede di oltre 600 pagode costruite attorno alla città, luogo in cui si possono incontrare vietnamiti vestiti da uomini d’affari e altri che indossano il non là, il cappello in paglia simbolo del Vietnam, accessorio di origine contadina, usato per proteggersi dal sole e dalla pioggia durante la lavorazione dei campi di riso. C’è chi pesca sulle sponde del Fiume Rosso, su cui la città nasce, chi spinge il carretto pieno di frutta e verdura sul marciapiede affollatissimo di persone, chi viaggia da solo con in spalla il proprio zaino e le folle di turisti che vengono accompagnati da una guida del luogo che parla un inglese maccheronico, ma molto chiaro.
Non ho potuto non visitare il celebre Tempio della Letteratura ad Hanoi, perfetto esempio dell’architettura tradizionale vietnamita, eretto nel 1.070 per rendere omaggio al sapere e all’educazione, e sede della prima università vietnamita. Si tratta di un tempio confuciano, culla della conoscenza di molti uomini che hanno segnato le sorti del paese, simbolo di illuminazione della sapienza e metaforicamente simbolo di accesso alla virtù e alla saggezza.
Nonostante l’idea fosse quella di vivere a pieno la popolazione ed immergersi nella cultura, evitando i luoghi più turistici, immancabile è stata la visita alla famosa Train Street, conosciuta al mondo per essere una strada adorna di fiori e di caffè, gestiti dai proprietari delle case adiacenti, luogo di transito del famoso treno che passa senza rallentare rasente alle case. Una linea gialla distanzia pochi metri la parete da un edificio all’altro, che non bisogna assolutamente oltrepassare per salvare la pelle. Uno spettacolo a dir poco surreale e nei principi della sicurezza del tutto vietnamiti, ma che cattura l’attenzione di molti curiosi per la sua singolarità.
La giornata in Vietnam inizia dalle prime luci dell’alba, infatti è abituale per le persone alzarsi di prima mattina e dedicarsi alle attività più diverse: dai venditori ambulanti, ai commercianti nei banchetti dello street food, c’è chi si diletta nella riparazione di strumenti rudimentali, meccanici a porte aperte, barbieri sul ciglio della strada, chi crea collane di fiori, chi intesse vestiti, chi cuce, chi pulisce, chi rimane semplicemente seduto a osservare il mondo per l’intera giornata. In Vietnam si può trovare di tutto e il contrario di tutto, ed è questa la magia di questo paese.
Il mio cuore si scaldò subito grazie all’accoglienza ricevuta, persone semplici e sorridenti, felici di quello che stavano facendo, felici di vedere una straniera nella loro terra, accoglienti e molto servizievoli. Una sorta di sintonia, che nella sua complicatezza, si consumava nella sua semplicità. Inspiegabile, una normalità anormale, così la definisco poiché vista dagli occhi di una persona di cultura occidentale, in cui gentilezza e cortesia non vengono praticate così facilmente verso degli sconosciuti.
Dolce o salato, la cucina vietnamita può soddisfare tutti i gusti al costo di pochissimi dong. Percorrendo dal nord al sud il paese, i piatti sono un simbolo identificativo delle varie zone e costituiscono una delle ricchezze della cucina nazionale, adorata in tutto il mondo. Il nord è infatti la culla del piatto vietnamita forse più conosciuto, il pho, cioè una zuppa a base di noodles, erbe e carne, il tutto affogato su una ciotola piena di brodo casalingo. Tipico della zona centrale del paese è il bahn xeo, ossia un piatto composto da pancakes fritti e salati, ripieni di carne di maiale, gamberi, cipolla verde tagliata a dadini e germogli di fagioli, immancabili come guarnizione in ogni piatto. Più diffuso nel sud del paese, ma onnipresente da nord a sud è il bahn mi, o baguette sandwich, originariamente introdotto dai colonizzatori francesi, condito con formaggio, salumi, verdura fresca e paté: una combinazione di gusto, semplicità e praticità! Le bevande offerte ai lati della strada sono principalmente smoothies di ogni gusto, per soddisfare ogni tipo di palato, oltre che le bevande molto dissetanti ricavate dalla canna da zucchero e il celeberrimo egg coffee, da gustare seduti sui piccoli sgabelli dei caffè del centro città.
In Vietnam poche persone conoscono la lingua inglese, è normalità per i vietnamiti rivolgersi agli stranieri in lingua madre, l’inglese è infatti una lingua ancora praticata da pochissimi e sfruttata soprattutto per il turismo. La naturalezza di avvicinarsi agli stranieri e parlare nella propria lingua madre, che per una persona di origine europea risuona davvero lontana e incomprensibile, è una pratica per i vietnamiti normalissima. La cosa fantastica è che, nonostante tutto, ci si capisce benissimo chissà per quale strana regola dell’universo, e il sorriso e la semplicità di tante cose si raccolgono in scambi che permettono di capire molto più di quello che effettivamente a parole viene detto. Un mondo così lontano dal nostro, spesso troppo proiettato nella materialità delle cose e nel risultato di come può suscitare un’impressione, rispondere a uno stereotipo e di rendere tutto un’apparenza.
Durante il mio viaggio, ho incontrato e conosciuto tanti solo travelers, di ogni età e provenienti da ogni nazione del mondo, che con lo zaino in spalla attraversavano tutta la nazione, in cerca di qualcosa. Inconsciamente sono partita io stessa alla ricerca di qualcosa, una “cosa” che non ha definizione o è esprimibile attraverso un concetto, ma che mira a riscoprire la profondità spesso recondita in ogni essere umano, una spiritualità che spesso viene soggiogata dai principi errati e legati all’apparenza di una società, che prendono il sopravvento. In Vietnam le persone hanno poco dal punto di vista materiale ed è forse questa la forza che le persone hanno per coltivare il proprio essere, i rapporti con le persone e la propria spiritualità.
Ho maturato questa convinzione spostandomi nel nord del paese, percorrendo il famoso anello della regione di Ha Giang che mi ha portato fino al confine cinese, in sella ad una moto e accompagnata da vietnamiti del posto, con cui, nonostante l’ostacolo linguistico, ho creato un legame di amicizia e spensieratezza, che mi ha regalato tra i momenti migliori della mia vita. Il nord del paese è un mondo completamente incontaminato dall’industrializzazione e dal capitalismo, la bellezza e la pienezza dominante della natura sono disarmanti. Ogni angolo era diverso, ricco di rocce, di vegetazione e di vette altissime che creavano lingue d’acqua, cascate e valli infinite: davanti a tale maestosità, è spontaneo percepire quanto l’essere umano possa sentirsi piccolo, paragonato alla forza degli elementi naturali.
Il nord del Vietnam, fuori dai sentieri battuti, è il luogo in cui ancora oggi coesistono almeno 53 gruppi etnici, tra cui gli H’mong, i Tay, i Fula, gli Dzao, i Cao Lan, i Lolo e i Thai bianchi, un mosaico di tribù che trova rifugio tra le altissime montagne. Percorrere le montagne e ammirare la potenza della natura è come incontrare il mondo alle sue origini, incontaminato da qualsiasi condizionamento artificiale. Le montagne sono piene di bambini, in gruppo o soli, anche molto piccoli, che percorrono il dorso della montagna, che si occupano di aiutare i più vecchi a raccogliere erbe utili alle cure mediche e principale fonte di sostentamento e alimentazione, che si dedicano alla cura della terra e lavorano quasi fossero dei piccoli adulti, anche facendo i lavori più faticosi.
Le intense sfumature di colore del vestiario tipico delle donne e delle bambine, incastonate in uno spettacolo di magia ambientale senza paragoni, la cordialità e il sorriso nell’accoglienza di queste persone riportano ad un’epoca fuori dal tempo. La vita è qui concepita in modo semplice e senza condizionamenti esterni, completamente libera da ogni complicanza e stereotipo e regala sensazioni di arricchimento personale difficilmente comparabili ad altre realtà. Le larghe famiglie sono composte da genitori giovanissimi, una configurazione che oggi, nella realtà occidentale, è lontana e forse appartenente al passato.
Spostandomi un po’ più verso il centro del paese, ho incontrato la natura che regna ancora sovrana nel parco naturale di Phong Nha-Ke Bang, riconosciuto come patrimonio naturale dell’umanità dall’UNESCO, sito caratterizzato da grotte, caverne e fiumi sotterranei e una grande ricchezza nella biodiversità animale e vegetale. Il sito è infatti una fra le più grandi regioni di calcare al mondo.
La ricerca della ricchezza del mondo naturale mi ha spinta fino all’isola di Cat Ba, nonostante fosse stata parzialmente distrutta dal tifone Yagi, che aveva colpito la zona qualche settimana prima. Molte persone che ho incontrato nel mio viaggio avevano evitato radicalmente la meta, poiché spaventati dalla forza distruttiva della natura e della mancanza della praticità dei mezzi e delle risorse disponibili, andate distrutte. Nonostante abbia potuto constatare con i miei occhi l’intensità devastante del tifone, ancora oggi farei la stessa scelta, cioè di vedere con i miei occhi la forte capacità di resilienza di questo popolo, pronto a rialzarsi dopo aver visto la distruzione, in procinto di unirsi e lavorare per ricostruire quello che la natura, che tanto dà loro, aveva distrutto. L’isola di Cat Ba è il corridoio per raggiungere la celebre baia di Ha Long, una delle meraviglie del mondo naturale, un paradiso di circa 2.000 atolli calcarei ricoperti da foresta pluviale e abitate da animali molto rari, tra cui le scimmie in via di estinzione che popolano Monkey Island. La magia di questa baia è intrisa di leggenda, poiché le popolazioni locali sostengono che, migliaia di anni fa, quando i vietnamiti si sono trovati a dover combattere contro gli invasori cinesi, gli dèi sono venuti in loro aiuto e hanno inviato dei draghi, figure mitologiche molto care alle popolazioni locali, che avrebbero sputato gioielli, poi trasformatisi in isolotti, che avrebbero protetto la loro terra dagli invasori. Si può respirare ancora oggi l’incanto di questa suggestione, inebriata dall’incontro fra la natura primeggiante e il fascino del mito.
Non potevo non sostare per qualche giorno nella bellissima città di Hoi An, nel centro del Vietnam, conosciuta come la città delle lanterne. Si tratta di una città divenuta patrimonio UNESCO, una città cartolina che, quando scende la sera, è costellata da lanterne illuminate, che illuminano il buio della notte e che riflettono la loro luce sulle acque del fiume Thu Bon (detto anche il Fiume della Nostalgia). Esse rappresentano la storia e la tradizione di questa città, nucleo di scambi commerciali fra popoli che hanno lasciato un segno nel loro passaggio, come giapponesi (da ricordare infatti è il celebre ponte giapponese della città di Hoi An, raffigurato dietro alle banconote di ventimila dong), vietnamiti, olandesi, francesi, cinesi e persino indiani. Le lanterne hanno un significato molto profondo nelle culture asiatiche, sono infatti simbolo di speranza, rinascita, fortuna e prosperità. Lasciare al fiume una lanterna di carta accesa ad Hoi An è una metafora della volontà di esprimere un desiderio e di lasciarsi alle spalle dolori appartenenti al passato, una sorta di rinascita dello spirito, cullata dalla magia che avvolge l’atmosfera.
Ho conosciuto un popolo fortissimo, che ha dimostrato nel corso dei secoli la sua intelligenza e la sua resilienza. Questo popolo è un grande esempio della grande capacità di far fronte a delle difficoltà e di utilizzare gli strumenti in suo possesso senza retrocedere di un passo. Popolo soggiogato per tutta la sua storia dagli invasori, protagonista di uno dei conflitti più importanti, sia a livello simbolico che a livello politico, della storia del Novecento; ha saputo usare ingegnosamente gli strumenti rudimentali in suo possesso per non mollare, fino ad arrivare a vincere la guerra e ad ottenere la propria indipendenza.
L’indipendenza per il popolo vietnamita è un simbolo di forte unità, coronata dalla perseveranza di Ho Chi Minh, politico e rivoluzionario, che guidò il paese dapprima come Primo ministro e fondatore del partito Viet Minh (“Lega per l’indipendenza del Vietnam”) e poi durante la guerra del Vietnam del Nord contro il Vietnam del Sud.
La vecchia Saigon è stata battezzata Ho Chi Minh in suo onore. La fortuna mi ha permesso di ricontrare proprio ad Ho Chi Minh una vecchia amica vietnamita che aveva vissuto un periodo in Australia con mia sorella. Poter condividere con lei anche solo una passeggiata di sera, mi ha permesso di confrontarmi sul tema del forte spirito di unità che anche la nuova generazione coltiva. Ho sentito spesso sottolineare da più nativi vietnamiti la grande forza di non provare alcun rimorso nei confronti del passato, nonostante le grandi perdite, nonostante la grande sofferenza causata dalla guerra. L’unità di questo popolo si fonda sullo sguardo verso il futuro, senza nostalgia e rancore verso ciò che è stato. Un insegnamento che al giorno d’oggi potrebbe perdersi nella trivialità delle parole, ma che non è da considerare come retorico.
Durante il mio soggiorno ad Ho Chi Minh, ho voluto approfondire la mia conoscenza sulla guerra del Vietnam, visitando il museo dei resti della guerra, fondato nel 1975. A primo impatto, il museo mira principalmente a denunciare le atrocità della guerra con una prospettiva deliberatamente propagandistica e vietnamita. Nel corso del tempo, con il miglioramento delle relazioni internazionali, la visione ha cercato un equilibrio meno orientato, ma rimane determinante l’impatto debilitante sull’aspetto poco umano della guerra, sulle conseguenze causate dall’uso delle armi chimiche sul campo, in particolare dell’Agent Orange, in contrasto alla forte resistenza vietnamita con armi rudimentali.
Il museo è ricco di testimonianze di sopravvissuti alla guerra, ricchissimo di immagini storiche crudeli, che mostrano senza veli la crudeltà umana e una ricca sezione dedicata ai reportage di guerra, in termini di stragi compiute e di persone che hanno invece sacrificato la loro vita per salvarne altrettante. L’affresco che ne deriva da questa visita, pur essendo in ottica vietnamita, suggella una pagina di storia che ancora oggi pesa nelle coscienze del mondo occidentale.
Un po’ nascosto e forse anche poco conosciuto è il monumento dedicato al monaco buddista Thich Quang Duc, situato nell’incrocio di una strada molto trafficata, nello stesso luogo in cui l’uomo, all’età di 67 anni, l’11 giugno 1963, si immolò come simbolo di protesta alla politica di oppressione nei confronti della religione buddhista, messa in pratica dall’amministrazione politica di fede cattolica del presidente del Vietnam del sud, sostenuto dagli Stati Uniti, Ngo Dinh Diem. Il monumento è dotato di un’energia propria ed eccezionale, l’aurea che si avvolge attorno a questa statua trasmette al medesimo tempo sofferenza, liberazione, pace interiore e risoluzione, a poca distanza dal disordinato traffico dal rumore incessante. Il monaco si fece cospargere di benzina e si fece dare fuoco, rimanendo completamente immobile per dieci minuti, fino alla sua morte, nella posizione del loto, mantenendo un controllo totale sul proprio corpo e sulla propria mente. Si è molto discusso di questo estremo gesto compiuto dal monaco, ancora oggi ci si chiede come la protesta per la libertà potesse manifestarsi in un tale comportamento, nell’ottica buddista. Rimane comunque in Vietnam l’importante impronta di questo uomo, eretto ad eroe nazionale e conosciuto nel mondo per il famoso scatto di Malcom Browne, foto che ha vinto il World Press Photo of the Year.
A pochi passi da questo monumento, si trova la Pagoda di Xa Loi, conosciuta poiché si dice custodisca una reliquia del Buddha ed è luogo di incontro di molti fedeli che si raccolgono al tramonto in preghiera e meditazione. Sono stata molto fortunata a potervi accedere, nonostante il mio abbigliamento non adeguato, poiché sono stata avvicinata da dei ragazzi e bambini, che parlavano un perfetto inglese, incuriositi dalla mia origine e dalla mia presenza e dall’interesse che manifestavo nei confronti del luogo. Nonostante il mio abbigliamento non fosse adeguato, il monaco buddhista che portava la tipica veste di color arancione mi ha permesso l’ingresso e mi è stata subito offerto un bahn mi, rigorosamente vegetariano, un bicchiere della bevanda a base di zucchero di canna e una tunica da indossare per poter praticare la meditazione. La meditazione va rigorosamente praticata a piedi scalzi, spesso nella posizione del fiore del loto. Il togliersi le scarpe è un gesto di rispetto che non viene praticato soltanto nel contesto religioso, ma anche nelle abitazioni delle persone comuni, poiché simboleggia il rispetto nei confronti di chi ha aperto le proprie porte di casa agli ospiti, ma anche un simbolo di gran rispetto per sé stessi. Le scarpe, infatti, raccolgono tutto lo sporco che ognuno di noi incontra nella propria vita, l’usura delle suole è il simbolo della sofferenza e delle fatiche affrontate, che va lasciato fuori dalla dimora.
Il mio viaggio in Vietnam ha portato a galla dentro di me tante emozioni che poche pagine non riescono e non arriverebbero mai a descrivere.
Il Vietnam ha risvegliato in me la percezione delle cose semplici, quelle che rendono la vita veramente ricca e vissuta a pieno del nostro stupore, perché soprattutto le cose semplici, come il sorriso di un bambino, la gentilezza di uno sconosciuto e la vita vissuta nella sua autenticità senza costellazioni artificiali dovrebbero essere il vero sapore di ogni giornata.
Il viaggio rimane sempre il modo migliore per praticare l’arricchimento dell’anima, dopo aver vissuto questa terra lo penso sempre di più.
Caro Vietnam, ci rivedremo presto!
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