Alla conquista di un sogno: Everest Base Camp di Valentina Ciarallo e Roberto Gramola

6 Gennaio 2025 Centro Studi Grandi Migrazioni Comments Off

Quando si pensa al Nepal la mente vola tra le alte cime innevate dell’Himalaya, attraversando templi immersi nel silenzio e nella natura incontaminata, là dove l’uomo ancora fatica a prendere il sopravvento.

Eppure, la porta d’ingresso a questo paradiso è un vero e proprio schiaffo in faccia: Kathmandu, la capitale, ti risucchia all’interno del suo traffico infernale, tra smog, clacson e fatiscenza. L’impatto è forte, il rumore assordante; persone ovunque, animali, case prossime al crollo vittime dei numerosi terremoti. Tutto ciò si alterna ai templi, luoghi sacri ricchi di storia e carichi di spiritualità. I sorrisi dei Nepalesi sono la boccata d’aria fresca che ti permette di sopravvivere in questo caos.

Anche noi, da amanti della montagna siamo partiti per questo viaggio alla conquista di un sogno: vedere con i nostri occhi la regina delle montagne, l’Everest.

Per assaporare al meglio questa esperienza abbiamo deciso di partire da un piccolo villaggio fuori dalle rotte turistiche, nello stesso punto dove Sir Edmund Hillary, alpinista ed esploratore neozelandese, molti anni prima, nel 1953, iniziò l’avventura che lo portò a raggiungere assieme allo sherpa Tenzing Norgay la cima del Sagaramāthā (monte Everest in nepalese), a quota 8.849 metri. Questo villaggio si chiama Phaphlu e per raggiungerlo sono necessarie dieci ore di Jeep da Kathmandu. Le strade sono dissestate, ricche di buche e polverose, ma in una jeep si riescono a stipare ben dieci persone, con i loro voluminosi bagagli.

Abbiamo iniziato il trekking all’altitudine di 2.413 metri. I primi giorni ci hanno regalato la possibilità di assistere a quotidiane scene di vita: bambini che percorrono lunghe tratte da soli per recarsi a scuola, madri impegnate ad arare i campi con i loro yak, uomini intenti a trasportare carichi impressionanti sulle loro spalle (i cosiddetti Sherpa, per l’appunto) e anziani sempre pronti a regalare sguardi d’intesa e sdentati Namaste.

Qui le auto sono merce rara, i mezzi a motore riescono ad arrivare a circa 3.000 metri, al massimo, e quelli che ci arrivano sono pickup o jeep. Le strade sono poche e in pessime condizioni. I mezzi di trasporto ufficiali sono gli asini e gli yak, buffi bovini dalle gambe corte e il pelo lungo, tipici di queste zone, in grado di trasportare enormi pesi fino a quote impensabili per qualsiasi altro animale; docili e mansueti non conoscono la fatica o l’affanno da mancanza d’ossigeno, continuano incessantemente a servire i popoli Himalayani da generazioni.

Dopo circa sei giorni di cammino tra valli e ponti tibetani si raggiungono finalmente i 4.000 metri e l’ambiente attorno cambia. Eccoli… i primi ottomila in lontananza, si stagliano tra il cielo e le terre arse che calpestiamo, da questo momento in poi respirare diventa più faticoso e ogni passo è una prova, le distanze giornaliere si riducono ed è necessario maggiore riposo. Lungo la strada non mancano i lodge dove trovare un buon Dhal Bhat caldo, chiamato da loro “Power for 24 hours”, e cioè un piatto di lenticchie, riso, curry di verdure e una buona dose di peperoncino, che fortunatamente passano a riempire ogni volta che si finisce la propria dose. I lodge, inoltre, offrono rifugio per la notte, permettendoti di non dormire all’addiaccio dove le temperature possono scendere anche a -15/-20 °C nelle ore notturne.

Una volta passati i 5.000 metri la questione si fa seria, l’emicrania e la nausea interrompono spesso il cammino ma la visione dei panorami innevati e la presenza, a volte ingombrante, dei vari settemila e ottomila riesce a distrarti per qualche istante dal tuo malessere. A queste quote bisogna idratarsi in continuazione, rallentare il tempo di salita e soprattutto ascoltare il proprio corpo. La salita non è tecnica, il percorso è ben tracciato e le temperature diurne ti invogliano a stare all’aria aperta a goderti questi panorami.

Il nostro viaggio aveva come meta il campo base Everest, ma questo è stato solo una parte del percorso, ogni singolo giorno ha riempito i nostri occhi e il nostro cuore, le cime innevate del Lhotse, dell’Ama Dablam, il cervino dell’Himalaya, i laghi glaciali di Gokyo con le loro sfumature di azzurro e verde, il ghiacciaio di Chola, ci hanno lasciati a bocca aperta.

Una gioia che ha raggiunto il suo culmine in una proposta di matrimonio nel punto più alto da noi raggiunto, il Kala Pattar, lì a 5.465 metri ci siamo promessi l’uno all’altra. E pochi minuti dopo quel fatidico sì il frastuono di una valanga dall’altra parte della vallata ci ha fatto capire che non stavamo sognando ma stava accadendo tutto per davvero.

Il Nepal è una terra che porteremo sempre nel nostro cuore, il vento gelido dei 5.000 metri, il calore umano dei nepalesi e l’immensità della natura. Dhanyabad Nepal, questo è solo un arrivederci.